I popoli indigeni africani

I cittadini europei e italiani assistono quotidianamente all’arrivo di migranti provenienti dal cuore del continente africano. Non è questo il luogo per discettare dei molti problemi che occorre affrontare con l’arrivo di tante persone, ma poiché siamo cittadini delle ex potenze coloniali che hanno a lungo dominato l’Africa dovremmo conoscere, anche se purtroppo non sempre è così, quali siano i motivi storici che sono all’origine di questi flussi migratori. Qui basti ricordare i motivi più recenti: corruzione, traffico d’armi, guerre, sfruttamento selvaggio delle risorse naturali, vendita di terreni agricoli alle multinazionali. Tutto ciò ha provocato e sta provocando carestie, povertà, epidemie, disperazione, fanatismo e terrorismo. Come stupirsi che le persone che possono fuggano da tutto ciò?

Come altrove nel mondo, anche in Africa i popoli indigeni sono fra quelli che più soffrono di tali situazioni. Anche il concetto stesso d’identità indigena è fortemente contestato in Africa. Ad esempio, il capo del Programma per lo Sviluppo dei San, che opera nell’ambito dell’Ufficio del Primo Ministro della Namibia, ha sostenuto che poiché gli africani sono tutti neri, tutti sono indigeni con ciò disconoscendo il diritto dei San a tale riconoscimento specifico. Va notato che questa concezione, ampiamente diffusa in tutta l’Africa, è in netto contrasto con quasi tutti i meccanismi internazionali e con il più ampio discorso sull’indigenismo. Il punto di vista dominante tra molti governi africani e tra le popolazioni africane maggioritarie è che, poiché tutti gli africani sono stati colonizzati dalle potenze europee e poi hanno combattuto per la loro indipendenza da tali potenze, tutti gli africani dovrebbero essere considerati indigeni. Ad esempio, in linea con un certo numero di altri paesi africani, l’articolo 10 della Costituzione dell’Uganda afferma che ogni gruppo esistente e residente entro i confini dell’Uganda da prima del 1926 è indigeno. In Botswana, sede di più della metà del popolo San, il governo si è rifiutato di partecipare alla decade delle popolazioni indigene del 1993-2003, sostenendo che nel loro paese tutti erano indigeni. Negare ai popoli indigeni africani la loro identità indigena significa che, conseguentemente, sono loro negate le tutele e i diritti che la legge internazionale riserva ai popoli indigeni.unknown

Tuttavia, molti governi africani (quelli del Camerun, dell’Uganda, della Repubblica Centrafricana, la Repubblica Democratica del Congo, il Kenya e la Tanzania, ad esempio) seguono le direttive della Banca Mondiale e della IFC (International Finance Corporation) sulla questione dei popoli indigeni. Il riconoscimento di questi governi che parti delle loro popolazioni sono costituite da popoli e comunità indigene è, infatti, sancito nei trattati internazionali bilaterali tra il singolo paese e le istituzioni finanziarie internazionali. Quindi, sebbene esista una retorica dominante anti indigena, le posizioni di questi governi sono tutt’altro che uniformi in merito all’esistenza di popoli o comunità indigene in Africa, anche se ciò non si traduce in politiche conseguenti. Gli accordi internazionali che essi sottoscrivono implicano, di fatto, il riconoscimento dell’esistenza di popoli indigeni entro i loro confini, e che il concetto di popolo e comunità indigena deve essere applicato solo a determinati gruppi di africani e non all’intera popolazione dello stato.

Come districarsi da questa situazione? Se è vero che tutti gli africani sono indigeni di un continente colonizzato dalle potenze europee, è altrettanto vero che il termine «popoli indigeni» deve essere usato solo per riferirsi a coloro che vedono se stessi, e sono visti dai loro vicini, come indigeni d’Africa. Come ovunque nel mondo, anche in Africa vi sono popoli i cui i miti di origine parlano di migrazione e di arrivo da altrove, mentre i miti di origine della maggior parte delle comunità e dei popoli indigeni africani affermano di essere emersi dalle – e quindi di appartenere alle – loro terre.

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Considerata l’attuale situazione di emarginazione che molti popoli e comunità indigene in Africa sopportano, alcuni si sono chiesti se potrebbe essere più utile per loro elaborare le loro pretese di parità di trattamento in termini di “diritti umani” invece che di “diritti indigeni”, in termini del loro essere “minoranze emarginate” anziché essere “popoli indigeni”. È stato sostenuto che i governi africani potrebbero rispondere più favorevolmente a questi termini poiché se accettassero il diritto di tali popoli allo status indigeno, questo potrebbe metterli in una posizione scomoda ed essere visti come colonizzatori in relazione a queste minoranze. L’obiezione a questo punto di vista è che tali ridenominazioni semplicemente tradurrebbero le richieste dei popoli indigeni in parole che potrebbero essere più accettabili per coloro che li hanno storicamente emarginati senza che alle comunità indigene ne derivasse alcun beneficio.

Il 29 maggio 2017, in un rapporto pubblicato, con il sostegno finanziario del Ministero degli Affari Esteri della Danimarca, dalla Commissione Africana per i Diritti Umani e dei Popoli (ACHPR) e dall’International Working Group for Indigenous Affairs (IWGIA) è stata evidenziata l’inquietante situazione dei popoli e delle comunità indigene in Africa. Il rapporto ha evidenziato l’allarmante ruolo delle industrie estrattive e più recentemente delle imprese agroindustriali nella violazione dei diritti umani fondamentali e degli specifici diritti dei popoli indigeni, spesso con il sostegno complice dei governi nazionali e in spregio delle stesse regole costituzionali degli stati ove esse operano.

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Una delle principali giustificazioni addotte dalle aziende che operano nei territori indigeni o le cui operazioni riguardano quei territori è l’assenza del riconoscimento formale dei popoli indigeni da parte dello stato in cui vivono. Tuttavia, un principio generalmente accettato dal diritto internazionale sostiene che l’esistenza di gruppi etnici, linguistici o religiosi distinti, compresi i popoli indigeni, può essere stabilita da criteri oggettivi e non può dipendere da una decisione unilaterale da parte di uno stato. Le imprese non possono utilizzare come scusa per non applicare le norme internazionali minime applicabili ai popoli indigeni il limitato o l’assente riconoscimento della presenza di popoli indigeni nei paesi in cui operano, e ciò anche nei casi in cui gli stati si oppongano all’applicazione delle norme internazionali.

La Commissione Africana per i Diritti Umani e dei Popoli (ACHPR), in una sua relazione del 2003 elenca le caratteristiche comuni ai popoli e alle comunità indigene in Africa che si possono identificare come segue:

  • Le loro culture e modi di vita differiscono considerevolmente dalla società dominante e le loro culture sono sotto minaccia, in alcuni casi di estinzione.
  • Una caratteristica fondamentale per la maggior parte di loro è che la sopravvivenza del loro modo di vita particolare dipende dall’accesso e dai diritti alla loro terra tradizionale e alle risorse naturali su di essa.
  • Soffrono di discriminazioni poiché sono considerati meno sviluppati e meno avanzati di altri settori più dominanti della società.
  • Frequentemente vivono in regioni inaccessibili, spesso geograficamente isolate e afflitte da diverse forme di emarginazione, sia politicamente sia socialmente.
  • Sono soggetti al dominio e allo sfruttamento all’interno delle strutture politiche ed economiche nazionali che sono comunemente progettate per ricomprendere gli interessi e le attività della maggioranza nazionale. Questa discriminazione, il dominio e la marginalizzazione violano i loro diritti umani come popoli e comunità, minaccia la continuità delle loro culture e dei loro modi di vita e impedisce loro di partecipare veramente alle decisioni sul loro futuro e sulle loro forme di sviluppo.

    Presenza di popoli e comunità indigene negli stati africani

    Presenza di popoli e comunità indigene negli stati africani

Generalmente, in Africa, la maggioranza dei popoli e delle comunità indigene pratica la caccia e la raccolta o la pastorizia come principale forma di sussistenza. Spesso i governi africani sostengono che tali popoli non hanno diritti sulle terre in cui abitano perché sono nomadi e pertanto non rispettano i criteri della residenza permanente e dell’addomesticamento della terra che sono ritenute condizioni necessarie per la detenzione dei diritti di proprietà. L’uso del termine “nomade” in questa accezione è molto negativo ed è stato impiegato dai governi coloniali e da quelli post-coloniali e dai popoli dominanti per negare ai popoli e alle comunità indigene i loro diritti fondamentali. Questa manipolazione del termine “nomade” dimostra, nella migliore delle ipotesi, un malinteso del termine stesso e un travisamento delle consuetudini dei popoli e delle comunità indigene. In alcuni casi si tratta di una falsa dichiarazione appositamente progettata per negare a tali persone il diritto alla loro terra. Il termine “nomade” dovrebbe riferirsi a comunità che dispongono di abitazioni temporanee o semi-permanenti e che regolarmente spostano i loro insediamenti nell’ambito delle loro strategie di sussistenza. Il termine “nomade” descrive un particolare modello di movimento e di abitudini e non implica che i popoli “nomadi” non dispongano di propri territori. Infatti, i popoli “nomadi”, compresi i cacciatori e raccoglitori e i popoli pastori, hanno conoscenze approfondite dei loro territori, che sono regolamentati socialmente attraverso valori condivisi e su cui sono praticati regimi complessi di gestione delle risorse per garantirne la sostenibilità a lungo termine. Anche la Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) n. 169, all’art. 14 riconosce specificamente che i “popoli nomadi” hanno diritti fondamentali inalienabili alle terre in cui vivono. Per non tacere del fatto che il concetto di terra nullius è stato rigettato definitivamente dal diritto internazionale. Ma, nonostante ciò, in Africa, il concetto di terra nullius ha continuato a essere applicato ai popoli indigeni poiché le loro strategie di sostentamento non sono riconosciute come valide a conferire diritti sulle terre ancestrali. Questa situazione è rappresentata dal rifiuto del riconoscimento del diritto di autodeterminazione e del diritto dei popoli e delle comunità indigene al controllo dei loro territori, nonché dal fatto che non si ritiene necessario richiedere il loro consenso libero e preventivo in merito ai piani di sviluppo realizzati sulle loro terre. Inoltre, è pratica diffusa la ridislocazione, in alcuni casi vera e propria deportazione, dei popoli e delle comunità indigene dalle loro terre. Al fondo di tali “politiche” dei governi africani appare una concezione che è l’essenza del colonialismo: poiché la terra non viene lavorata e trasformata come farebbe la società dominante, i diritti di proprietà indigeni vengono dissolti e la terra risulta, come per magia, terra nullius. L’uso di queste giustificazioni per l’appropriazione delle terre non è terminato con il colonialismo, ma è continuato fino ad oggi, ad opera degli stati sorti dopo la fine del colonialismo europeo. Di conseguenza, i popoli cacciatori-raccoglitori e i popoli pastori perdono i diritti alla loro terra a causa della forma dei loro rapporti politici ed ecologici con il territorio.

Alcuni esempi:

  • in Uganda, i Karamojong non hanno ottenuto il riconoscimento dei loro diritti sulla propria terra e il governo non ritiene la pastorizia un uso valido delle loro terre né dimostra alcuna urgenza di riconoscere i mezzi di sussistenza indigeni all’interno della legislazione nazionale.
  • in Namibia, il governo considera le comunità indigene San solo come beneficiarie delle terre che abitano e non come proprietarie di esse. Il governo namibiano esibisce una legislazione che, a suo dire, protegge i diritti delle popolazioni e delle comunità indigene nella gestione delle proprie terre e dei mezzi di sussistenza, ma tale legislazione non tutela i diritti di proprietà delle terre e dei mezzi di sussistenza richiesti dal diritto internazionale.
  • in Kenya, è in corso il processo di espropriazione completa delle terre della comunità Aweer per scopi agroindustriali e per la costruzione di un oleodotto.
  • in Camerun i popoli indigeni del dipartimento di Océan stanno affrontando nuove minacce contro le loro terre come conseguenza delle piantagioni di palma da olio e dell’apertura di miniere di minerali di ferro.
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La maggior parte dei popoli indigeni africani si trovano ad affrontare molteplici sfide, tra cui la dispersione delle terre, dei territori e delle risorse, l’assimilazione forzata nel modo di vivere dei gruppi dominanti, l’emarginazione, la povertà e l’analfabetismo. La sfida di riconoscere i popoli indigeni nelle leggi e nelle costituzioni nazionali continua. Ma ci sono stati alcuni importanti risultati: la Repubblica del Congo nel 2011 è diventata il primo paese africano ad adottare una legge specifica sulla promozione e la protezione dei diritti dei popoli indigeni. La Repubblica dell’Africa Centrale nel 2010 – come primo paese in Africa – ha ratificato la Convenzione ILO n. 169, concernente i diritti dei popoli indigeni e tribali. La costituzione del Kenya riconosce i gruppi storicamente emarginati, compresi i popoli indigeni. La costituzione del Camerun menziona anche i popoli indigeni e in Burundi la costituzione prevede una rappresentanza speciale del popolo Batwa nell’Assemblea nazionale e nel Senato. A livello regionale, l’inclusione dei diritti “dei popoli” nella Carta africana sui diritti umani e dei popoli funge da base per la copertura delle popolazioni indigene nell’ambito della Carta.

Negli ultimi 20 anni, un numero crescente di gruppi e di comunità in Africa ha iniziato a identificarsi come popoli indigeni, in quanto la discriminazione e la marginalizzazione vissuta da tali popoli in tutto il mondo corrispondono alle esperienze che essi vivono in Africa. I popoli indigeni africani sono sempre più coinvolti nel movimento globale dei diritti indigeni e hanno trovato una piattaforma internazionale da cui analizzare la loro situazione, esprimere le loro preoccupazioni e cercare il riconoscimento e la protezione dei loro diritti.

Coloro che si definiscono come popoli indigeni in Africa sono, come detto, soprattutto pastori nomadi o semi nomadi e cacciatori-raccoglitori (o ex cacciatori-raccoglitori). I cacciatori-raccoglitori includono tra gli altri i pigmei dell’Africa Centrale, i San dell’Africa meridionale, gli Hadzab e gli Akie della Tanzania e gli Ogiek, i Sengwer, i Watta, gli Yaaku del Kenya. I pastori nomadi o semi nomadi includono tra gli altri i Maasai del Kenya e della Tanzania; i Barabaig della Tanzania; gli Endorois, i Samburu, i Turkana, i Rendille, gli Orma, i Borana e i Pokot del Kenya, i Karamojong dell’Uganda; le numerose comunità pastorali del Sudan, della Somalia e dell’Etiopia; i Touareg di Mali, Niger e Burkina Faso; i Fulani di Niger, Mali, Burkina Faso e numerosi altri paesi dell’Africa occidentale; i Mbororo in Camerun, Ciad e altri paesi dell’Africa occidentale; i Toubou nel Niger e gli Himba in Namibia.images-1

I cacciatori / raccoglitori costituiscono popoli relativamente esigui di numero, mentre i pastori comprendono più di 250 milioni di persone nel continente africano. La pastorizia è praticata su circa il 50% della massa terrestre totale del continente. Sia i cacciatori / raccoglitori sia i pastori solitamente rappresentano una minoranza nei loro paesi che sono governati da un’élite politica che rappresenta la maggioranza della popolazione che pratica l’agricoltura.

I ogni parte dell’Africa, i governi, le industrie estrattive, la comunità internazionale devono farsi carico di coinvolgere i popoli e le comunità indigene e farli sedere al tavolo dove le loro opinioni, aspirazioni e valori non solo devono essere ascoltati, ma, soprattutto, devono essere utilizzati per guidare e determinare il percorso di ciascuno. La comunità internazionale soprattutto deve stimolare questo processo, non solo attraverso il sostegno al coinvolgimento attivo dei popoli indigeni africani, ma anche riconoscendo la propria colpevole avidità e insaziabile domanda di risorse africane.

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