QUESTA È UNA VERGOGNA ANCHE ITALIANA CHE COINVOLGE BENETTON, LA NOTA INDUSTRIA TESSILE. PROPRIO QUELLA DELLE BELLE FOTO COI BAMBINI DI TUTTO IL MONDO. CHE PERÒ PASCOLA LE SUE PECORE SU TERRITORI USURPATI AL POPOLO MAPUCHE, CHE MANDA LE SUE GUARDIE PRIVATE A REPRIMERE LE MANIFESTAZIONI DI DISSENSO E CHE HA LA FACCIA TOSTA DI RICORRERE AI TRIBUNALI PER FAR RISPETTARE IL PROPRIO “DIRITTO DI PROPRIETÀ”, MENTRE SI TRATTA DI SPECULAZIONE SULLA PELLE DEGLI INDIGENI.
Nella zona di Esquel, nel sud dell’Argentina, da più di un anno una comunità Mapuche sta recuperando terre ancestrali usurpate da Benetton. Sgomberata il 26 maggio 2016, con una operazione violenta che non ha avuto rispetto nemmeno dei neonati presenti, che ha portato all’arresto di numerosi comuneros, in una operazione condotta con reparti speciali e alla presenza della polizia privata di Benetton. In carcere resta ad oggi il Lonko della comunità, Facundo Jones Huala, prigioniero politico il cui caso abbiamo già seguito come Cerchio. Ricordiamo che in Cile la Machi (sciamana) Millaray, il Machi Tito, e altri 4 comuneros Mapuche tra cui Facundo, furono accusati senza prove nel 2013 dell’incendio alla casa del guardiano di un latifondo. Il processo politico serviva per spezzare la lotta che Millaray guidava contro la prevista costruzione di una centrale idroelettrica sul fiume Pilmaiquen, che distruggerebbe un centro cerimoniale sacro. I sei imputati furono tutti assolti, eccetto Millaray, condannata senza prove per favoreggiamento. Facundo, accusato di aver compiuto il fatto, scappò in clandestinità durante il processo, dopo aver passato un anno in prigione preventiva. Il processo è stato seguito da un nostro Osservatore. (in fondo all’articolo i link per approfondimenti)
VIOLENTO SGOMBERO IN UNA COMUNITÀ A ESQUEL
Agenti di polizia, Gendarmería e GEOP (Grupo Especial de Operaciones Policiales) hanno sgomberato nella mattina del 27 maggio un’occupazione di terre ancestrali che il Lof (N.d.T. comunità ancestrale, tradizionale mapuche) mapuche del dipartimento di Cushamen aveva iniziato lo scorso anno in un terreno della multinazionale Benetton nella zona di Leleque, provincia di Chubut. Secondo quanto ci dice la Rete di Appoggio dell’occupazione, ci sono stati 7 fermi. “Si sono portati via donne e bambini al seguito in auto private senza mandati”, dice Martiniano Jones Huala, uno dei portavoce.
Secondo quanto ha specificato la radio comunitaria FM Kalewche, è stata la detenzione di Facundo Jones Huala –su cui pendeva un ordine di cattura internazionale – a motivare la presenza del GEOP, la forza speciale di operazioni della provincia. È stata la prima a entrare in azione alle 7:30 di mattina. Poi sono arrivati gli agenti di polizia e della gendarmeria, con un supposto ordine di sgombero che, secondo Martiniano, non hanno mai mostrato. “Non c’è niente. Non hanno tirato fuori un mandato. Era un ordine verbale”. Secondo il giornalista Pablo Quintana, “l’ordine per intervenire nel territorio è stato dato dal giudice Martín Zacchino e presentata dalla procuratrice generale Camila Banfi de Comodoro Rivadavia”. Martiniano, in comunicazione telefonica con il nostro sito: “Era impressionante la quantità di armi che c’erano. È stato molto violento, era molto tempo che non vedevo tanta violenza. Ci hanno malmenati e hanno tirato gas”. Racconta che ora all’occupazione sono rimaste due donne con quattro bambini “sono circondate dalla Gendarmería. Per questo necessitiamo diffusione”. La brutalità ha il suo contesto: l’occupazione riferisce di un processo lo scorso anno, nel quale il tribunale provinciale ha tentato per la prima volta di applicare a Chubut la legge Antiterrorista per perseguire i mapuche, però il tribunale Federale respinse gli argomenti.
I giornalisti della rivista “MU” (fa parte della cooperativa argentina di contro-informazione “Lavaca”: http://www.lavaca.org/que-es-lavaca/) erano stati a Esquel all’occupazione mapuche a settembre dello scorso anno, dove avevano parlato con le famiglie che ora sono state sgomberate. Riportiamo qui sotto parte dell’articolo.
COME IL RECUPERO DI UN TERRITORIO ANCESTRALE DA PARTE DI UNA COMUNITÀ MAPUCHE SI TRASFORMÒ IN UNA CAUSA PER TERRORISMO
Dalla strada si vede una casetta, e questo richiama l’attenzione nella steppa della Patagonia. È il paesaggio da cartolina che qualunque turista può catturare dal pullman: la sierra, i picchi innevati, la bellezza infinita e altri sostantivi poetici, però all’incrocio tra la statale 40 e la strada provinciale per El Maitén c’è una casetta e questo attira l’attenzione. L’auto si ferma al lato della strada dopo un viaggio di 100 km. Appese a un filo che abbraccia questo infinito, a Vuelta del Río, località Leleque, dipartimento di Cushamen, ci sono tre bandiere che annunciano:
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territorio recuperato
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imprese multinazionali
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territorio mapuche
E passando sotto il filo, la casetta. È di legno. Una donna batte le mani. Dalla casetta esce qualcuno. È incappucciato, e secondo tre procuratori e un giudice, si tratta di un terrorista. L’incappucciato saluta con una stratta di mano, un doppio bacio sulle guance, e dice di passare. La donna separa i fili e passa. Tutti la imitano. Dietro sta la cartolina patagonica e la casetta, che risulta essere un posto di guardia per allertare sulle visite. Chiaro: dal 13 marzo, quando il Lof in Resistenza del Dipartimento di Cushamen iniziò il recupero dei suoi territori ancestrali in uno dei terreni della multinazionale tessile italiana Benetton, ci sono state varie visite. Molte della polizia provinciale, che li ha colpiti con proiettili di piombo, senza causare morti per pura casualità. In questo mezzogiorno patagonico, senza freddo né vento e con un sole che picchia, la visita è di MU, accompagnati da membri del gruppo di appoggio all’occupazione. Il suolo è roccioso, con arbusti bassi, duri e spinosi, che non rendono difficile la camminata, però ci dicono che le notti in questi posti non sono semplici. In fondo ci sono due strutture costruite in pietra, tronchi, fango e lastroni. Da un lato, un filo con panni umidi che si asciugano al sole. Escono altri uomini mapuche incappucciati. A viso scoperto donne e bambini. Tutti sono giovani. Salutano: “Mari mari” (N.d.T. Saluto in lingua mapudungun). Strette di mano e bacio sulla guancia. Ci sediamo in circolo.
Il peccato originario
Durante il viaggio, l’imputato e accusato di terrorismo, Martiniano Jones Huala, 51 anni, cinque figli, muratore, ci ha spiegato le coordinate del conflitto: “Qui comincia Benetton”. Il limite sarebbe vago per chiunque, ma non per gli occhi allenati di Martiniano: con precisione ci segnala un ruscello e un filo. Questa linea persa nell’immensa steppa della Patagonia, indica Martiniano Jones Huala, è il marchio della multinazionale che concentra quasi un milione e mezzo di ettari di suolo argentino. La sua storia è la storia di un’appropriazione: dopo il genocidio della “Conquista del Deserto” (N.d.T. così si chiama l’operazione militare di conquista del territorio indigeno della Patagonia da parte della neo-nata repubblica Argentina, che fu un’operazione di sterminio), a Londra fu fondata l’Argentinian Southern Land Company nel 1889 per realizzare attività commerciali in Patagonia. Nel 1896 fu beneficiata con la donazione di 10 “estancias” (N.d.T. podere, terreno agricolo; non ha un’estensione fissa) di quasi 90.000 ettari ciascuna. In cambio del finanziamento della campagna, ottenne terre strategiche per lo sviluppo della ferrovia che le servì per esportare il bestiame allevato. Nel 1982 l’impresa cambiò nome – Compañía de Tierras del Sud Argentino, CTSA – e integrò nella direzione il 60% di amministratori argentini. Questo pacchetto azionario fu comprato nel 1991 da Benetton per 50 milioni di dollari. Un affare molto vantaggioso. Dettaglio: a metà degli anni ’90, la società ha cambiato il suo statuto per includere l’estrazione mineraria tra i suoi obiettivi.
“Tanta terra per cosa?” si chiede la donna mapuche che ci conduce fino a Vuelta del Río. A metà del tragitto, esattamente di fronte al podere centrale di Benetton, si vede un’altra casetta, e sul prato, grazie ad alcune pietre poste in modo strategico, si legge: “Territorio mapuche recuperato”. Segnala così il recupero di questi 600 ettari conosciuti come Santa Rosa che, nel 2007, dopo una lotta durata anni e un viaggio in Italia per parlamentare con lo stesso Benetton, terminò con un trionfo che concretizzò ciò che è riconosciuto dalla legislazione nazionale e internazionale: il ritorno alla terra ancestrale. Ora è Atilio Curiñanco – 63 anni, quattro figli – che proclama: “Noi siamo mapuche e apparteniamo a questo territorio. Per noi Benetton non è niente: siamo noi che dobbiamo dirgli dove deve stare. Se noi continuiamo a tacere, ci lasciamo calpestare”. Spiega così ciò che significa questa nuova occupazione di Vuelta del Río.
Dopo questo recupero di terre, Benetton ha presentato una denuncia per “usurpazione”. È stata aperta una causa. Tecnicamente, c’è un solo imputato: Martiniano Jones Huala, che era uno dei portavoce che ha messo in chiaro l’interesse del Lof di stabilire un tavolo di trattativa col governo nazionale. Non lo afferma solo lui: la volontà di dialogo è registrata nel fascicolo della procura. In questo procedimento ci sono altre quattro persone identificate, tre sono donne, che ora hanno un mandato di cattura internazionale. Perché? Non gli è mai arrivata la notifica giudiziaria e per questo non si sono presentate formalmente ai procedimenti. Un dettaglio che accentua il ridicolo di tale misura giudiziaria: la rivista MU ha parlato con loro. E non è stato sotto un ponte o in un luogo oscuro: è bastato un viaggio di un’ora fino a Esquel. Altro dettaglio: queste cinque persone perseguite erano il “volto pubblico” dell’occupazione”. Prima conseguenza: imputazioni e ordini di cattura. Seconda conseguenza: hanno spinto gli altri mapuche a coprirsi il viso, per evitare la persecuzione giudiziaria.
Terrorismo giudiziario
L’Istituto Nazionale degli Affari Indigeni (Instituto Nacional de Asuntos Indígenas INAI) con la nota N° 132/2015, ha rigettato la richiesta di terra: poiché non riconosce il Lof tra le comunità con “personalità giuridica riconosciuta” e con un numero di matricola (come generalmente è applicato), ha qualificato l’occupazione come un’azione di “persone isolate” e non di una “comunità indigena organizzata” (N.d.T. come in molti paesi, anche qui si applica una legge istituita dai colonizzatori, per cui vengono riconosciute legalmente solo le comunità iscritte in un registro ufficiale, e tale registrazione è ad arbitrio delle autorità competenti). Martiniano Jones Huala, l’imputato, ribatte: “Per questo necessitiamo del territorio, per organizzarci”. E esige che si rispetti ciò che recita la Costituzione (articolo N° 75, comma 17), la Convenzione ILO 169 (articoli 14 e 16) e l’ONU: il riconoscimento della preesistenza etnica e culturale dei popoli indigeni e il loro diritto al possesso e proprietà delle terre che occuparono tradizionalmente. Come se questa legislazione non esistesse, nel procedimento si legge che la procura investiga i delitti di “usurpazione, coercizione, attentato aggravato contro l’autorità e furto di un cartello stradale”. Inoltre, collegano il Lof con altri fatti accaduti nella zona e con altri gruppi mapuche, basandosi solo su ritagli di giornale. La paranoia cresce documento dopo documento: i procuratori sostengono che il “modo d’agire” mapuche “colpisce direttamente gli interessi della nazione, fino al punto da porre a rischio la sicurezza interna”, perché considerano che la richiesta di terra non colpisce solo Chubut, ma anche altre province argentine e anche cilene. In Cile, la mobilitazione mapuche è significativa, e la risposta dello stato è sempre stata la stessa: applicazione della Legge Antiterrorista. E ciò ha motivato nel 2014 una condanna della Corte Interamericana per i Diritti Umani (CIDH) allo stato cileno per violazione dei diritti umani del popolo mapuche. La conclusione dei procuratori María Bottini, Fernanda Révori e Fernando Rivarola è stata quella di applicare la Legge Antiterrorista per la prima volta nel territorio chubutense. E il giudice provinciale Martín Zacchino lha convalidato l’accusa.
Testo della sua sentenza: “È stato dimostrato che c’è stato un piano tendente a obbligare le autorità pubbliche nazionali a riconoscere diritti in un modo quasi estorsivo”.
Il timore delle organizzazioni per i diritti umani e dei giuristi che criticavano la Legge Antiterrorista, approvata nel 2011, che possa aprire una zona grigia di interpretazione che renda possibile la repressione delle rivendicazioni sociali, si è verificata in una causa contro mapuche che reclamavano il prorpio territorio. La causa passò così al tribunale federale di Esquel, in carico al giudice Guido Otranto, che doveva definire se accettava la competenza. La rifiutò. I suoi argomenti:
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Chiarisce che l’intenzione mapuche è sempre stata di “creare un tavolo di trattativa”.
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La definizione di un atto come terrorista non deriva da un esercizio volontario, ma dev’essere contestualizzato nelle principali fonti del Dritto Internazionale.
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La Commessione per i DIritti Umani dell’ONU ha messo in discussione alcune legislazioni che hanno definito il delitto di terrorismo con eccessiva ampiezza e mancanza di precisione, perché colpiscono i requisiti del principio di legalità e pongono a rischio i cittadini di essere perseguitati penalmente per motivi politici, religiosi o ideologici.
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Non ci sono stati attentati alla vita ne lesioni gravi contro nessuno. (…) e tutto l’armamento consisteva in fionde.
Ciònonostante, la giustizia provinciale ricorse in appello alla Corte Suprema , che l’ha respinta.
Patagonia ribelle
Davanti al registratore, un mapuche ci dice: “Dal primo giorno che siamo entrati, anzi già da prima, abbiamo sempre sostenuto che la soluzione di tutto il conflitto per le terre con il popolo mapuche è politica. Qual’è? In linea di principio, la devoluzione dei territori contesi. Nemmeno della totalità del territorio ancestrale. In linea di principio, perché non partiamo dall’analisi più radicale, bensì da ciò che stabilisce lo stesso stato. La riforma della Costituzione nel ’94 ha integrato l’articolo N° 75, dove al comma 17 si riconosce la nostra preesistenza etnica e che si rispetti il riconoscimento delle terre che occupavamo tradizionalmente. Però non è successo: per questo la nostra proposta è politica. Ricordiamo: sono loro che hanno riformato la Costituzione. Ora, se non la rispettano, non abbiamo altra opzione che il recupero. Non possiamo aspettare altri 20 anni di pratiche burocratiche per risolvere le nostre necessità e problemi reali: fame, povertà, la mortalità dei nostri animali, che si riperquote sulla nostra alimentazione e qualità di vita. Siamo una cultura sul punto di estinguerci. Se non facciamo nulla, scompariamo. È difficile che anche il governo più progressista possa risolvere un problema di 130 anni, però almeno ha l’opportunità storica di iniziare a conversare”. Segnala che l’intervento dello stato, fino ad ora, è stato repressivo. “La polizia ci ha represso con pallottole di piombo, con un assedio impressionante e molta militarizzazione. Hanno sparato a bruciapelo, al corpo. Le pallottole ci sibilavano intorno. Se affronti il potere, una delle possibilità è la repressione, però ci aspettavamo pallottole di gomma. Abbiamo le prove concrete: i bossoli. Non so se è fortuna o le forze della natura che sono dalla nostra parte, però finora non c’è stato un morto per casualità”. A cosa attribuiscono questa risposta dello stato e del potere giudiziario? Mirta Curruhuinca, una delle mapuche con mandato di cattura, interviene: “Temono la sollevazione di più persone e comunità. Perché noi, in questo processo, stiamo dimostrando che si può lottare contro tutti i poteri”. Luciana Jaramillo, la terza donna “latitante”, conclude: “Stiamo lottando per qualcosa che ci appartiene. Queste terre erano dei miei nonni e sono disposta a dare la vita perché le generazioni future non debbano vergognarsi, e così possa dire a mio figlio che ho lottato per queste terre”.
Articolo originale: http://www.lavaca.org/notas/violento-desalojo-a-una-comunidad-mapuche-en-esquel-se-llevaron-a-mujeres-y-ninos-a-la-rastra/
Vedi anche: L’uomo che ha comprato la Patagonia Di GABRIELE CRUCIATA – 21 LUGLIO 2015.
http://www.lintellettualedissidente.it/italia-2/luomo-che-ha-comprato-la-patagonia/
Il processo di Pilmaiken: